“Prima della cattura di Patrizio Peci e delle sue confessioni, le nostre conoscenze sulle Brigate Rosse erano all’anno zero”
Con queste parole il generale Carlo Alberto dalla Chiesa commentò , intervistato da Sergio Zavoli per il suo splendido programma televisivo La notte della repubblica, l’episodio chiave che portò alla riscossa dello stato nei confronti dell’organizzazione terroristica, che solo 17 mesi prima del citato arresto di Peci era sembrata un’organizzazione invincibile, in seguito ai tragici fatti di Via Fani, dove morirono 5 uomini della scorta del presidente della DC Aldo Moro e con il sequestro dello stesso statista.
I corpi riversi nel corridoio
L’episodio dell’arresto di Peci, avvenuto, il 18 febbraio del 1980 mentre era a Torino in compagnia di un altro capo brigatista, Carlo Micaletto, permise al Generale Dalla Chiesa di squarciare le tenebre in cui erano avvolte le vite dei brigatisti, il loro modo di vivere, il loro organigramma, la struttura stessa dell’organizzazione clandestina, fino ad allora impermeabile alle infiltrazioni, fatti salvi sporadici casi come l’operazione Girasole e altro.
Peci racconta tutto in due giorni interi di colloquio con il Generale, che diligentemente prende nota per verificare l’attendibilità del primo vero pentito di casa BR; un fiume in piena, che costringe Dalla Chiesa a far correre i suoi uomini alla ricerca di riscontri oggettivi dei racconti di Peci.
Durante i colloqui, Patrizio Peci fa il nome di uno dei covi più importanti che posseggono le Brigate Rosse.
E’ un appartamento intestato ai genitori di Annamaria Ludmann, una militante non clandestina, quindi in grado di fornire un supporto sicuro alle Brigate Rosse.
La Annamaria Ludmann è figlia di una famiglia benestante, ha studiato in Svizzera e si è avvicinata come molti, troppi altri alla lotta armata spinta dall’ideologia, dalla voglia di cambiare il “sistema”.
L’ingresso con la pozza di sangue lasciata dal maresciallo Rinaldo Benà
I suoi possiedono un appartamento, molto grande, in via Fracchia n.12,all’interno 1, nel quartiere Oregina a Genova, in un condominio posto a non più di cento metri dal punto nel quale il 24 gennaio 1979 un commando composto da Riccardo Dura, Vincenzo Guagliardo e Lorenzo Carpi aveva ucciso con 6 colpi di pistola il sindacalista Guido Rossa, colpevole di aver testimoniato contro un brigatista poi suicida in carcere, Francesco Berardi, sopreso da Rossa mentre deponeva volantini BR dietro un distributore di bevande dell’Italsider.
La notizia è ghiotta, per Dalla Chiesa; così l’appartamento viene messo sotto sorveglianza, ma è necessario agire subito, per evitare fughe.
L’appartamento è al piano terra del condominio, ha tre stanze grandi, un bagno, una cucina e un ripostiglio;
I corpi dei brigatisti: nell’ultima foto, la Ludmann con una bomba a mano
Così, la notte del 28 marzo 1980 alle 4,00 del mattino, nel buio e con la pioggia, scatta l’operazione pianificata da Dalla Chiesa; secondo quanto riportato dai carabinieri nel loro rapporto le cose cose ebbero questo svolgimento.
6 carabinieri, con in avanscoperta l’oggi colonnello Michele Riccio, affiancato dal maresciallo Rinaldo Benà, antrano nel palazzo al civico 12; Michele Riccio sfonda a calci la porta e urla, nell’appartamento immerso nel buio.
I dialoghi, così come riportati dagli agenti, sono drammaticamente sintetici.
” Carabinieri, arrendetevi”.
Una voce risponde: “Va bene ci arrendiamo”
Dai carabinieri si alza la voce di Riccio ” Venite avanti con le mani alzate”
Dall’interno si sente esplodere un colpo di pistola, che centra il maresciallo Rinaldo Benà ad un occhio.
L’uomo, pur ferito, apre il fuoco con il mitra così come fanno gli altri militi.
Pochi istanti dopo il fuoco d’inferno scatenato dalla reazione dei brigatisti all’interno, il silenzio.
Riccio entra con prudenza nell’appartamento alla ricerca di eventuali altri brigatisti nascosti, ma ormai c’è solo silenzio; per terra ci sono quattro corpi stesi nel corridoio, tutti senza vita.
Sono quelli di Annamaria Ludmann, la compagna Cecilia, suo soprannome in battaglia, Lorenzo Betassa, il compagno Antonio, Riccardo Dura ( il cui nome si apprenderàin seguito e che resterà non identificato per vari giorni fino a quando le BR non forniranno il nome del terrorista ad un giornale), nome di battaglia Roberto e infine Piero Panciarelli, Pasquale.
Riccardo Dura, nato a Roccalumera (ME), il 12 settembre 1950 è la personalità più importante; è membro della direzione strategica delle Br, un operaio marittimo entrato in clandestinità autore di numerosi attentati, fra i quali quello citato ai danni di Guido Rossa, da lui stesso giustiziato con un colpo di pistola alla testa.
La sala da pranzo dopo il conflitto a fuoco
Il letto sul quale dormivano tre dei quattro brigatisti
Lorenzo Betassa, nato a Torino, il 30 marzo 1952, è un dirigente Br, operaio della Fiat, mentre Piero Panciarelli, nato a Torino, il 29 agosto 1955 è operaio alla Lancia di Chivasso.
Annamaria Ludmann, nata a Chiavari (GE), il 9 settembre 1947, è una segretaria, l’unica a non avere un ruolo da clandestina nel gruppo.
I quattro sono stati evidentemente sorpresi nel sonno, perchè, come testimoniano le immagini, sono semisvestiti.
Dura è in magliettina e slip, la Ludmann ha addosso una maglietta, Betassa e Panciarelli sono vestiti sommariamente; i carabinieri entrano quindi nella varie stanze e iniziano a perquisire la casa, mentre Dalla Chiesa chiama Riccio, annunciandogli il suo immediato arrivo.
L’appartamento si rivela da subito un covo di fondamentale importanza per le Br, e a maggior ragione per gli uomini di Dalla Chiesa.
Una parte delle 3000 schede con nomi di giudici, magistrati poliziotti e giornalisti
Particolare di una scheda
All’interno, c’è di tutto: armi, munizioni, un lancia granate, documenti falsi, un’ attrezzatura per fabbricare targhe false e cosa più importante, un archivio delle BR con 3000 schede segnaletiche, che mostrano il grado di capillarità raggiunto dall’organizzazione terroristica nell’identificazione degli obiettivi da combattere e perseguire.
Per Dalla Chiesa sono informazioni vitali, oltre che un successo operativo senza precedenti.
Nelle mani dei carabinieri ci sono documenti e armi, schede segnaletiche ma sopratutto c’è la convinzione di aver sferrato un colpo decisivo alle invincibili BR.
L’arsenale
Si notino i razzi sul lato destro
In primo piano un razzo anticarro
Pistole, munizioni, manette
Sul posto, poco dopo il conflitto a fuoco, arrivano i iornalisti; ma a difendere in senso lato l’appartamento c’è un nugolo di polizia e carabinieri.
I giornalisti vengono fermati all’ingresso dello stabile, e solo dopo diversi giorni furono fatti accedere nell’appartamento, per una visita che durò non più di tre minuti.
Tutto il necessario per falsificare targhe
La notizia della strage di via Fracchia ebbe immediata eco sui giornali e in tv e montarono immediatamente le polemiche; venne fatta subito notare la sproporzione tra i quattro caduti delle BR e il ferito dei carabinieri.
Polemiche alle quali rispose stizzito il generale Dalla Chiesa, ricordando come il primo a cadere, miracolosamente solo ferito, fosse stato il maresciallo Rinaldo Benà.
Ai più apparve chiaro che il livello dello scontro ormai si era alzato; sembrava quasi che il messaggio proveniente da via Fracchia fosse: ” d’ora in poi useremo le maniere forti”, un chiaro avvertimento alle BR che da quel momento la battaglia sarebbe stata senza quartiere.
Indubbiamente i segnali usciti dai fatti di via Fracchia furono molto forti; da un lato lo stato mostrò l’intenzione di adottare la linea dura,dall’altro la presunta invincibilità delle Brigate rosse veniva demitizzata e ridimensionata.
Come avrebbe detto il compianto Walter Tobagi, in un suo celebre articolo, “Non sono samurai invincibili”, riferendosi a quell’aura alla Robin Hood di cui godettero le Brigate Rosse per tutto il decennio settanta.
Altro materiale rinvenuto in Via Fracchia 12
I drappi con la stella a cinque punte
La notizia sui giornali
La pianta dell’appartamento all’interno 1
Il maresciallo Benà