A SUD DELLA MEMORIA: L'EMIGRAZIONE ITALIANASe c’è una
vicenda che si ripete all’infinito, senza mai dare l’impressione di avere capitalizzato, sia pure in minima parte, la storia recente, questa è
l’emigrazione.
Siamo stati
il sud del mondo, lo siamo ancora oggi, in diverse parti del globo, rappresentando all’estremo proprio ciò che la parola Sud evoca in buona parte del nostro settentrione: criminalità, miseria, degrado, fastidio.
Un sud enorme,
eterogeneo, che spaziava dalla Sila al Polesine, dal Salento alle Langhe: una folla grande quanto l’Italia di cent’anni fa si è mossa, eppure nei libri di
storia della nostra scuola non ne trovi
traccia. Sconosciuta, negata, sparita. Nessuna traccia dei milioni di Parodi, Zola, Caputo, Mastropiero, Toffolin e Puglisi che hanno lasciato il paese per inseguire la speranza, e spesso hanno perso entrambi.
L’assenza di questa tappa fondamentale della storia nazionale nella formazione scolastica è proporzionale al desiderio di rimozione espresso quasi con ferocia proprio in alcune delle zone del paese in cui più forte è stato il fenomeno. Per noi invece, il
ricordo, anche nei limiti angusti di un articolo su questo sito, permette di tracciare la genesi del
pregiudizio che infiamma il dibattito contemporaneo.
Cerchiamo di chiarire, prima d’ogni altra cosa, la
portata storica del fenomeno emigratorio italiano: il nostro è stato l’esodo più imponente della storia moderna e contemporanea.
Calcolato sulla distanza di un secolo, dal 1876 al 1976 (in altre parole ieri sera, per la storia), quando per la prima volta il flusso migratorio ha registrato un saldo a favore degli ingressi in Italia rispetto alle uscite, ventisette milioni d’Italiani hanno cercato
la “Merica” in ogni angolo del mondo, lo stesso numero dei residenti nello stivale al momento dell’Unità del Regno: un’altra Italia fuori di casa, come quella di oggi, con
sessanta milioni di connazionali sparsi in ogni angolo del globo.
Record assoluto, per essere chiari, con qualche sorpresa, almeno rispetto all’infinita superficialità con cui il problema è trattato: la leadership migratoria spetta al nord, che svolge a tutti gli effetti, nel periodo considerato, il ruolo che istintivamente viene assegnato al Sud nella percezione contemporanea, certo amplificata dal maggiore coinvolgimento del
mezzogiorno nel flusso recente verso il triangolo industriale e l’Europa centrale, nel secondo dopoguerra, e dalla martellante rappresentazione del fenomeno fatta da Hollywood, che ha riproposto l’italiano conosciuto, il “
dago”meridionale, dove Brasile o Argentina o Australia non hanno avuto un
cinema altrettanto importante che rappresentasse il “macaroni” di casa, tipicamente veneto, lombardo, ligure, al quale veniva riservato però lo stesso trattamento.
Il
Veneto (prima regione per numero assoluto di emigranti, 3.300.000 nel periodo considerato). la Lombardia e il
Friuli hanno “esportato” speranze e miserie per sette milioni e mezzo di persone, contro i sette milioni circa di Sicilia, Campania e Calabria e le direttici di migrazione che indicano come questa sia avvenuta in misura pressoché identica verso il vecchio e i nuovi continenti: Francia, Svizzera e Germania e Belgio, i primi quattro paesi europei di questa particolare classifica, sono, con 12 milioni di emigranti, avanti a Usa, Argentina, Brasile e Australia (11 milioni).
Di questa
memoria “vicina”, paradossalmente, risulta ancora più ingombrante e fastidioso il ricordo, avvertito come dequalificante, proprio nel momento dell’unificazione europea.
Prendere in esame l’emigrazione verso l’estero e quella interna consente di avvicinare le giovani generazioni alla questione migratoria. "Siamo tutti americani, siamo tutti immigrati" era lo slogan dei progressisti statunitensi degli anni trenta in risposta agli xenofobi che non volevano immigrati nel paese. I cosiddetti
Wop (acronimo per
without papers ma assonanza dichiarata con la parola
guappo, con cui venivano indicati sprezzantemente gli italiani) di allora come i “sans papier” dei moti francesi di dieci anni orsono. La storia, spesso, ripete rimastica e sputa le stesse istintività, le stesse ideologie e addirittura le stesse parole.
Ma cosa ha realmente significato il fenomeno migratorio per il nostro paese? Salvemini, studioso italiano tra i più qualificati diceva “
Nel Sud si ricava dalla terra appena tanto da mangiare e da pagare le tasse… E alla prima difficoltà tutto va per aria. Se non ci fosse l’emigrazione transoceanica, avremmo ad ogni cattiva raccolta... delle vere e proprie crisi di fame….”
Esportazione della miseria, quindi: le retoriche sull’ingegno e sullo spirito d’iniziativa che abbellivano il Bisogno sono stata una costruzione ideologica successiva, soprattutto nel ventennio fascista, quando la declamazione delle conquiste del regime aveva a supporto la negazione del fenomeno e si contraddiceva apertamente proprio nell’esaltazione della fecondità che ci veniva rimproverata ovunque.
Essì, eh, perché mentre a New York e a
Buenos Aires ci accusavano di essere “dagoes” (accoltellatori) e di figliare come conigli, Mussolini benediceva a Roma una parata di 93 madri italiche con i propri 1320 figli, circa 14 a testa.
Le modalità dell’emigrazione e
dell’insediamento erano poi, a volerle leggere, anticipazione fino al dettagli di quanto avviene oggi e si articolarono prevalentemente attraverso catene migratorie per linee familiari, campanilistiche, regionali e di mestiere.
Non si contano, soprattutto nella fase iniziale dell’esodo, i numerosi episodi di taglieggiamento e di truffa ai danni chi doveva procurarsi il biglietto transoceanico (le stime indicano che più della metà degli emigrati negli anni novanta partì con un biglietto prepagato, che comportava un mercato e un negoziato di malaffare ai due estremi della rotta) e una volta giunti a destinazione la triste storia continuava ai danni di molti immigrati italiani, che dovevano versare una tangente per ottenere un lavoro e l’abitazione e avevano l’obbligo di acquistare le merci in uno spaccio indicato.
Per chi ci arrivava, naturalmente: e a questo proposito basta ricordare il bel racconto di Sciascia "Il lungo viaggio" in
Il Mare colore del vino, che chiama a protagonisti gli emigranti fatti salire su una nave con destinazione dichiarata l’America e poi sbarcati in una credibile “clandestinità” sulla costa siciliana dopo aver circumnavigato l'isola chissà quante volte.
La crescita del pregiudizio è proporzionale alla
rimozione della memoria, ma uno sforzo minimo di onestà intellettuale porterà ad una conclusione soltanto: ogni nefandezza che noi oggi rimproveriamo agli immigrati, l’abbiamo commessa prima di loro.
Li accusiamo di avviare le loro
donne al mercato della prostituzione: siamo degli esperti in materia, i bordelli delle città del Mediterraneo prima e dell’America poi erano pieni di Teresine e Concette.
Rubano il lavoro ai nostri disoccupati, urlano le menti superbe di qualche miracolo appena accennato e già in esaurimento: per la stessa accusa, ad
Aigues Mortes (sud della Francia, mica la Nuova Zelanda, dove i cuneesi in particolare rappresentavano la manovalanza occasionale) ci hanno ucciso e
fatti a pezzi a decine.
Il problema della criminalità? Non scherziamo, siamo stati dei maestri. Agli inizi del novecento, negli Usa, ogni tre francesi, quattro irlandesi e sette inglesi i
n gattabuia, c’erano venti dei nostri.
E non c’è da stupirsi, era tutta gente emigrata da un paese dove la mortalità media arrivava a malapena ai quattordici anni e l’analfabetismo qualificava quasi la metà degli italiani, contro il 3% dei tedeschi e il 2% medio di chi viene oggi a cercare la vita da noi.. Cent’anni fa, non nel Mesozoico.
E se nel traffico dal sud del mondo a qui, oggi, non c’è tribuno da quattrosoldi che non scorga legioni di terroristi di fatto o potenziali, anche in questo caso non dobbiamo imparare niente da nessuno:
Mario Buda, romagnolo, si faceva chiamare Mike Boda e il 16 settembre 1920 fece saltare in aria Wall Street (l’attentato più sanguinoso negli Usa, fino a quello di
Oklahoma City).
«L’unica vera e sostanziale differenza tra “noi” allora e gli immigrati in Italia oggi è di solito lo stacco temporale. Noi abbiamo vissuto l’esperienza prima, loro dopo. Punto» scrive GianAntonio Stella, autore dello splendido volume “L’Orda: quando gli albanesi eravamo noi”
Letto, approvato, e sottoscritto. A muso duro. Da ricordare, e da far ricordare, quando guardiamo a Sud: prima di ogni considerazione, prima di prenderla storta, prima di decidere qualunque cosa, dovremmo ricordarci dei Pittaluga e dei Santonastaso, dei
Brambilla e dei Cuomo, dei Cardin e dei Giovinazzo che guardavano a Nord e a Ovest.
di Web Michi