| Senza le grette forse non sarei stato genoano. O, meglio, a decidere la mia sorte fu il contrasto violento e incredibile tra quelle e il calcio vero: fu così che nel forsennato tentativo di adattare la realtà al gioco mi trovai preso in una morsa di ferro, rossa e blu, dalla quale non mi sono più liberato.
Tra i dieci e i dodici anni, a Pegli (un segno del destino, ero incastrato tra la casa natale di Fabrizio De Andrè ed il Pio XII, che sarebbe diventato lo storico campo di allenamento del Genoa) ero un fuoriclasse delle grette. Questo meraviglioso gioco di strada, diffusissimo fino agli anni ottanta, era basato sui tappi delle bottiglie; questi, messi a disposizione da lattai e baristi benevoli, che spesso ne conservavano per noi alla fine della giornata sacchetti interi, opportunamente lavorati (la perizia artigianale di alcuni di noi era formidabile, si sarebbe giustificata una specializzazione all'ITIS) diventavano le grette da usare per il gioco.
Una versione del gioco poteva essere il ciclismo: si disegnava una pista sul marciapiede con il gesso e poi si "correva" muovendole con diversi e sapienti colpi delle dita, che ripetevano e modulavano con più garbo e precisione la sempiterna bicellata (questa, come sanno tutti, voleva l'indice o il medio caricati a molla sul polpastrello del pollice per poi colpire l'obiettivo; se questo era l'orecchio del compagno di scuola, come accadeva di norma, si potevano scatenare risse furiose ed era quindi consigliabile applicare la bicellata e le sue varianti esclusivamente al gioco), come con le biglie sulla spiaggia. I "professionisti" riempivano le grette con cera o pongo, a guadagnare maggiore stabilità in percorsi spesso disegnati, come Genova comanda, su spazi minimi e saliscendi da paura, roba che il Puy de Dome al Tour de France faceva ridere.
Grette era però soprattutto calcio, e nella sua applicazione più raffinata lasciava le strade per entrare nelle case: su un tavolo rettangolare si metteva il panno verde utilizzato di norma per i giochi di carte, si prendevano ventidue grette ed ecco servito il proto-Subbuteo. Noi potevamo contare per di più su una particolare dotazione che faceva l'invidia di tutta Pegli: il papà di un mio compagno di gioco faceva il fabbro, e ci fece saddio quante miniporte che come rete utilizzavano il tulle normalmente usato per i sacchetti dei confetti (eravamo abituati troppo bene, di solito una scatoletta di cartone tagliata a metà assolveva perfettamente allo scopo). La stessa persona riempiva poi di stagno fuso le grette dei portieri che, nel nostro regolamento, dovevano avere un peso maggiore di tutti gli altri tappi (pardòn, giocatori) ché risolvere nell'arbitraggio il problema della carica al portiere non era fatto in sé banale: risolta con la minore facilità di spostamento, veniva sanzionata solo quando il giocatore, pardòn, la gretta finiva per sovrapporsi a quello. Il pallone era un anello per tende (preferibilmente di metallo, la merciaia che ce le vendeva ha vissuto fino a poco tempo fa e quand'ero bambino immancabilmente mi diceva: "Michelino, tu e quelle legère dei tuoi amici..."; la signora ricorreva ogni tanto ad una versione più esplicita della stessa frase, sostituendo a legère il corrispondente termine genovese di "contraccettivo") ma anche la plastica non andava male. Tra i tappi migliori destinati a diventare grette, c'erano quelli della Gazzosa Lagomarsino, a tutti gli effetti il tappo dei campioni, nel quale alloggiavamo un pezzetto di carta rotondo e colorato. In alcuni casi una micro opera d'arte, che qualificava squadra e giocatore.
Con le grette avevo pure capitalizzato la mia unica propensione artistica: le maglie per le grette suddette, che disegnavo (moneta da cento lire, righello, pilot colorati) non solo per me ma anche per i miei compagni più facoltosi che, all'uopo, mi pagavano fino a cinquecento lire per una squadra completa di undici titolari e cinque riserve. Immancabilmente costretto a misurarmi con la grande Inter, con il Real Madrid, poi con il Benfica di Eusebio e il Manchester di Best mi ritagliai uno spazio tutto mio ma senza il trasporto che provai in seguito e che allora non trovava premesse importanti: mio papà tifava soltanto per la nazionale, mio fratello maggiore era un blando juventino ma di piede fino, mio fratello minore era ancora piccolo e vedeva soltanto i trenini prima di essere a sua volta travolto dalla leggenda di Spensley, le donne di casa erano agnostiche. Iniziai così a disegnarmi più e più Genoa, perché no, per partecipare a campionati e coppe che giustificavano, in caso di particolari tensioni agonistiche, ritardi clamorosi e inevitabili rovesci scolastici (si tornava a casa tardi, appena prima di cena, e all'immancabile domanda "hai fatto tutti i compiti?" si mentiva spudoratamente, cosa non altrettanto facile con maestri o professori la mattina successiva).
Riuscii comunque a fare vincere al grifone qualunque trofeo: scudetto, Coppa delle Alpi, coppa dei campioni, addirittura la finale di una improbabile coppa del mondo mista nazionali/club contro l'Inghilterra. Due a zero, con goals di Brambilla e Canella - non so se mi spiego - che surclassarono per tutta la partita con arrogante superiorità i diretti avversari Stiles e Jackie Charlton, forse penalizzati dal fatto di muoversi sui tappi della birra Moretti, di sicuro tra i peggiori che i leoni di Wembley potessero augurarsi. Inutile poi dirvi di che squadra erano di norma i sei undicesimi della nazionale: il "blocco" della grande Inter era sostituito con sfrontata naturalezza da quello del Genoa. Così, pur se a volte il pudore mi frenava e confermavo tra gli azzurri i mostri sacri del momento, non era però infrequente sentire recitare veri e propri insulti al decoro quali: Da Pozzo, Burgnich, Facchetti, Baveni, Bassi, Rivara, Bicicli, Locatelli, Mazzola, Rivera e Riva.
Il Genoa per me era quello, al massimo quello delle figurine (con le quali non ero però altrettanto bravo, quando si giocavano a muro ero degno al massimo della panchina): a Marassi non mi accompagnava nessuno, e le vicende del campionato le seguivo poco. Quest'ultimo fatto, in verità, era stato determinato anche dalla mia prudenza perché scommisi a scuola, anno di grazia 1965, sul risultato dei grifoni a Torino contro la Juventus: mal me ne incolse, Leo Grosso esordì quel giorno in porta al posto di Da Pozzo e ne prese sette, ovviamente a zero, e tanti saluti alla mia merenda. Un primo sussulto, presagio di ciò che avrebbe segnato la mia vita, lo ebbi quando la televisione trasmise il secondo tempo di un derby vinto con una legnata dalla distanza di Franco Rivara. Ne provai gioia - la giovanissima età m'impedì di cogliere l'allarme - e pensai banalmente a quanto sarebbe stato bello se fossi riuscito vedere una partita vera in uno stadio vero, con giocatori dotati di gambe vere e non di tappi. Ma con quelli non ce n'era per nessuno: il Genoa a grette era grandissimo, e io con il Genoa.
Fu Agostino, un simpaticissimo collega di mio padre (e genoano da barzelletta, lui viveva addirittura in corso De Stefanis e mi divertiva moltissimo ascoltare i suoi racconti di vita vissuta basati su quanto a suo dire si riusciva a cogliere dal cancello dei "distinti", uno dei settori centrali dello stadio), a capire più di altri questo mio desiderio e un giorno, finalmente, feci con loro la mia trionfale prima al Ferraris, salendo la rampa elicoidale che introduceva alla nord, dotato del famoso cuscinetto pieghevole rosso e blu, ché allora la partita si guardava ancora seduti sui gradoni. Era il 21 maggio del 1967, dalla scaletta sotto la sud uscirono Grosso, Caocci, Vanara, Colombo, Bassi, Rivara, Taccola, Lodi, Petrini, Brambilla e Gallina. Il mister in panca era Tabanelli. Mio padre credo che non abbia quasi mai guardato il campo: ogni qual volta sollevavo lo sguardo trovavo il suo, è uno degli ultimi bei ricordi che ho di lui. Tanti anni dopo io feci con mio figlio esattamente la stessa cosa, che da bambino mi era risultata incomprensibile, quando lo accompagnai allo stadio per la sua prima volta. Quel giorno purtroppo non andò come a grette: l'avversario non era l'Inghilterra ma il più modesto Padova, ciò nonostante il Genoa non riuscì a schiodare il risultato dallo zero a zero.
Un banale equivoco, pensai, con inconsapevole e già marcato coinvolgimento. Probabilmente non di equivoco si trattava, visto che la successiva domenica a Palermo il Grifo andò sotto per tre a uno, e mi trovai con molta sorpresa smentito nelle mie convinzioni. Non chiesi a papà e Agostino di tornare a Marassi la domenica successiva, e fu uno dei più clamorosi sbagli della mia vita: il Genoa infilò otto goals alla Reggiana, tanto ad anticiparmi la serena e quasi monotona continuità che regolarmente caratterizza le nostre vicende, sempre lontane da ogni eccesso. Il risultato esagerato di quella partita (forse chi ebbe modo di vederla fu convinto di essere stato vittima di un'allucinazione collettiva) a me risultava invece assolutamente famigliare (una volta a grette umiliai il Milan di Rivera e Amarildo per 10 a 2) e mi diceva che sì, era il calcio la continuazione del mio gioco e non viceversa. Solo un fatto non tornava, che la Sampdoria e il Varese potessero vincere il torneo (era la B, tanto pe' cangiâ); questo no, nella realtà non era proprio possibile.
Il campionato purtroppo era agli sgoccioli, mancavano solo due giornate alla fine, entrambe in trasferta e segnate da inspiegabili, ulteriori sconfitte: di CIA e KGB allora se ne parlava già molto, ma ne sapevo ovviamente poco o nulla. Ciò non toglie che iniziai a pensare a quale oscura causa, certamente non tecnica, potesse causare alla mia (ormai lo era a tutti gli effetti) squadra di subire gli 1-2 e 1-3 rispettivamente con Catania e Novara. Qualcosa non andava per il verso giusto, a grette non sarebbe mai successo. Avrei dovuto svelare l'arcano da solo, perché non avrei più potuto chiedere a mio padre di tornare a vedere la partita con lui: quella con il Padova fu la prima e l'unica partita che vedemmo insieme, e non la dimenticherò mai.
Iniziai a seguire il Grifo con i miei amici, secondo uno schema obbligato che ci voleva sul "suburbano" - allora il treno locale si chiamava così - delle 13,28, la corsa da Brignole al Ferraris passando per Borgo Incrociati, la sistemazione cabalistica (imparai col tempo che al Genoa non c'è cabala che tenga, ma ci faceva comodo crederlo in virtù di non so che precedente) nello spicchio sopraelevato di gradinata proprio sulla curva, al confine con i distinti. Non sto a dirvi della via crucis che ne seguì: quello fu l'anno del campionato che terminò a luglio, che volli seguire stoicamente nel doppio capitolo degli spareggi fino al ventuno di luglio, grazie anche allo spirito di iniziativa di un bar del lungomare che ci diede modo di avere gli aggiornamenti via radio proprio come facevano a De Ferrari. Pensai ancora che il peggio fosse ormai alle spalle, ma non avevo ancora visto nulla.
Ecco, mentre scrivevo mi sono finalmente dato la risposta alla mia ostinata partecipazione del Genoa, delle sue vicende, dei suoi personaggi: lo faccio per ricostruire l'equilibrio che io so esistere tra il calcio giocato e quello, ben più attendibile e gratificante, delle grette. Io so che il Genoa vincerà di nuovo scudetti con assoluta regolarità, che le Coppe ci vedranno abituali dominatori e che la FIFA prima o poi si deciderà ad istituire un torneo misto nazionali/club che padroneggeremo fino al trionfo finale, sempre contro l'Inghilterra. Torneremo alla normalità, insomma.
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