Fabrizio De André, un grande del novecento oltre retoriche, agiografie e luoghi comuni

Ripeto per Faber - ex camalli sententia primus post bellum - quello che ho discusso con alcuni di noi in altre occasioni: a me, che l'ho avuto come parte sicura della mia formazione, ha sempre infastidito la tendenza agiografica verso la sua figura, e ho avuto modo di leggere stupidissime affermazioni beatificatorie che lui stesso, credo, avrebbe rifiutato.

Nel suo caso, quindi, posso permettermi di essere provocatorio: PFM o no, proviamo a valutare la sua figura non come un singolo, ma come un ecosistema artistico di squisita fattura, dove, al pari di altri grandissimi (Miles Davis, per esempio), lui è di fatto system integrator di tradizioni, componenti, capacità ed idee altre che gli hanno permesso di essere quello che è stato. Quando affermo questo, scorgo spesso smarrimento o diffidenza nei miei interlocutori, ma posso garantirvi che la sua grandezza è data non tanto dall'eccezionalità di una figura musicale e letteraria, già all'origine non poco indebitata, ma dalla sua naturale propensione ad acquisire, rielaborare ed integrare, appunto, fino alla definizione di un oggetto ultimo straordinario.

Quanto ho letto e studiato di lui, e di lui ho condiviso e discusso con chi l'ha conosciuto, magari nello stesso liceo che ci vide, in tempi diversi, misurarsi col greco e il latino, mi ha convinto di questa effettiva eccezionalità (da lui maturata anche con mezzi e capacità organizzative e di pressione non precisamente condivisibili) per la quale Faber è inconfondibilmente Faber quando è ideatore e regista d'insiemi diversi senza i quali, probabilmente, non sarebbe stato che un bravo cantautore.