Eeeeeeh, ma sei permaloso sei.
Qui di seguito
PAROLA DI CAMALLO (tuttavia citi Guccini e non De Andrè, non a caso volevo una tua parola
su questo, anzi già che ci sei Guccini/De Andrè/montale)
Con una firma come la mia, la diserzione della discussione (chapeau, Professore!) sarebbe stata imperdonabile. Firma che, non a caso, riporta una poesia di Ossi di Seppia, del 1925, che per me rappresenta Montale nel periodo che più ho amato: quando leggo le note di Paul Morrow, che invece si riferiscono a Futura, e al passo citato, tanto bello quanto "leggibile", l’evidenza della diversità è enorme.
Ermetico l'approccio ai primi versi, e alla sottesa incompatibilità tra Ragione e Non Ragione che vincola la solitudine dell’uomo di fronte all’universo e sancisce l’indeterminabilità del senso della vita, elementi che, per me, indicano senza possibilità di equivoco Leopardi come riferimento principe.
E ancora "regionale", per me, assegnando a questo termine la caratteristica di una poetica spiegabile anche con situazioni esclusivamente liguri: "Meriggiare pallido e assorto" fu per me, a sedici anni, quasi inquietante, perchè proponeva come forse mai più ebbi modo di trovare (ammetto però che la saggistica e la narrativa occupano i miei scaffali in modo esageratamente sproporzionato alla Poesia) una situazione fisica provata direttamente:
"…Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi
E andando nel sole che abbaglia
Sentire con triste meraviglia
Com’è tutta la vita e il suo travaglio
In questo seguitare una muraglia
Che ha in cima cozzi aguzzi di bottiglia"
La seconda parte è una sorta di "Bignami" della poetica montaliana: c'è un muro senza appigli ed anzi ostile che ti divide dalla possibilità d'intuire anche solo un lontano motivo del tuo passaggio terreno, perso di fronte ad un'immensità che ti riduce a dettaglio senza importanza; ma straordinario è il primo passo, dove alla riflessione Montale arriva attraverso percezioni fisiche indotte da un paesaggio a me familiare che spesso mi ha sorpreso, soprattutto in certi pomeriggi estivi dell’adolescenza, ad azzardare domande e risposte tanto grandi quanto obbligate, e che regolarmente aggiravo con la pratica consolatoria della Memoria.
Quel Montale ho amato senza riserve, e spesso ci pensavo tornando da scuola, passando davanti al palazzo di Corso Dogali, al 7, dove nacque e visse per un certo tempo: 500 metri o poco più dalla mia casa di allora che, ironia della sorte, era attigua a quella di un altro grande ligure da lui così diverso: Gilberto Govi.
Montale fu poi oggetto di studio comparativo con un'altra grande passione della mia giovinezza e della maturità: Francesco Guccini, che leggete in firma come seguito ideale di "Non chiederci la parola", fu epigono del poeta, non suoni offensivo l’accostamento, fino a fregiarsi del premio che a lui è dedicato, affermandosi in questo come uomo di lettere prestato alla musica.